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Le ferramenta perdute

Dal 1947 uno spunto di riflessione impressionante per la sua acutezza e attualità.

 

LE FERRAMENTA PERDUTE
Lectio Magistralis di Dorothy L. Sayers (1893-1957) all’Università di Oxford, 1947

Traduzione di Silvano Borruso

Non ritengo di dover chiedere scusa del fatto che io, con una limitatissima esperienza di
insegnamento, presuma di poter discutere di educazione. Oggi presumono tutti. Ci sono vescovi
che presumono di poter discutere di economia; biologi, di metafisica; chimici inorganici, di
teologia; in ministeri dove si richiede la più alta competenza tecnica sono in carica mezze
cartucce; e poi chi è uso a ‘parlare chiaro e tondo’ scrive ai giornali dicendo che né Epstein né
Picasso sanno disegnare. Fino a un certo punto, e sempre che le critiche vengano espresse con
una certa modestia, non c’è niente di male in tutto ciò. Troppa specializzazione non è bene. E c’è
un’altra eccellente ragione perché dei dilettanti si arroghino il diritto di parlare di educazione. Ed
è che se è vero che non tutti siamo insegnanti di professione, è altrettanto vero che tutti siamo
stati alunni, per un tempo più o meno lungo. Anche se non abbiamo imparato niente – forse
proprio perché non abbiamo imparato niente – il nostro contributo alla discussione può avere un
certo valore.
Mi rendo perfettamente conto dell’estrema improbabilità che le riforme qui proposte
vengano accettate. Né i genitori, né le scuole magistrali, né le commissioni di esami, né i ministeri
della pubblica istruzione vi presterebbero attenzione anche solo per un minuto. Già, perché è mia
intenzione dire che se proprio vogliamo una società di persone istruite, in grado di preservare la
loro libertà intellettuale nel bel mezzo delle complessità e delle pressioni della società moderna,
dobbiamo far marcia indietro nientemeno che di 400-500 anni per riprendere la via
dell’educazione dove si cominciò a perdere la bussola, verso la fine del Medio Evo.
Prima di liquidarmi con l’etichetta alla moda – reazionaria, romantica, medievalista,
laudatrix temporis acti o il primo luogo comune che vi venga in mente – mi si permetta di farvi
considerare delle cosucce che forse ci arrovellano tutti, e che di tanto in tanto fanno capolino ad
inquietarci.
Riflettiamo sull’età a cui si andava all’Università ai tempi, diciamo, dei Tudor, e alla quale
uno veniva considerato adatto ad assumere responsabilità per la condotta dei proprî affari. Ci
sentiamo proprio a nostro agio davanti all’odierno prolungamento artificiale dell’infanzia e
dell’adolescenza intellettuale? Posporre l’assunzione di responsabilità ad una età tarda trascina
con sé un certo numero di complicazioni psicologiche, che per quanto interessanti per lo
psichiatra, non sono di vantaggio alcuno né per l’individuo né per la società. L’argomento solito a
favore del prolungare l’età scolare e l’educazione in generale è che la quantità di materiale da
imparare è molta di più rispetto a quella che c’era nel Medio Evo. Il che è parzialmente, ma non
totalmente, vero. Agli scolari di oggi vengono insegnate molte più materie. Ma ciò ne aumenta le
conoscenze?
Non vi sembra strano, o deplorevole, che proprio oggi che il tasso di alfabetizzazione in
Europa è alto come non mai, la gente sia così vulnerabile alla pubblicità e alla propaganda di
massa, a livelli inauditi e non molto tempo fa inimmaginabili? Credete che si tratti di cosa
meccanica, conseguente al fatto che la stampa e la radio riescono a fare arrivare la propaganda ad
aree sempre più estese? O a volte sorge un sospetto inquietante, cioè che l’individuo prodotto
dell’educazione moderna sia meno capace di quel che potrebbe essere a districare fatti da opinioni
e quel che è provato da quello che è semplicemente plausibile?
Avete mai provato ad assistere a un dibattito tra persone adulte e presumibilmente
responsabili? Vi ha turbato constatare la straordinaria incapacità dell’interlocutore medio di
concentrarsi sull’argomento, o di affrontare e confutare quello dell’oppositore? Avete talvolta
notato l’alta incidenza di materiale del tutto irrilevante che si presenta durante le discussioni di
gruppo, o quanto rare siano le persone veramente capaci di presiedere a tali discussioni?
Riflettendo sul fatto che la maggior parte delle questioni di Stato viene decisa in riunioni e
dibattiti di questo tipo, non si prova a volte un certo senso di vuoto allo stomaco?
Avete mai seguito un dibattito, nei giornali o altrove, e notato quante volte chi scrive
manca di definire i termini che usa? O quanto spesso, quando uno definisce i termini, l’altro

risponde come se il primo li avesse usati esattamente con il significato opposto a quello dato?
Avete talvolta provato un senso di sconforto davanti a numerosi esempi di sintassi senza capo né
coda? E se sì, il turbamento era causato dall’ineleganza o dal pericolo di possibili malintesi?
Avete mai constatato come i giovani, una volta lasciata la scuola, non solo dimentichino la
maggior parte delle nozioni ivi apprese (questo c’è da aspettarselo) ma dimentichino anche o
rivelino di non aver mai saputo come affrontare una nuova materia di propria iniziativa? Vi ha
mai preoccupato il fatto di imbattervi in adulti, uomini o donne, che sembrano incapaci di
distinguere un libro valido, dotto, ben documentato, da uno che un occhio addestrato vede privo
delle tre cose? O in persone che non hanno idea di come consultare un catalogo di biblioteca? O
che, nel consultare un’opera di riferimento, mostrano una strana incapacità di estrarne i passaggi
rilevanti per la loro ricerca?
Vi siete mai imbattuti in persone per cui una ‘materia’ rimane ‘materia’ per tutta la vita,
divisa da altre da compartimenti stagni, tanto che trovano difficilissimo stabilire una connessione
mentale tra, diciamo, l’algebra e una storia poliziesca, lo scarico delle fognature e il prezzo del
salmone, o, più generalmente parlando, tra conoscenze come la filosofia e l’economia, o la chimica
e l’arte?
Di tanto in tanto non vi sentite a disagio davanti a ciò che uomini e donne adulti scrivono
per altri adulti? Un notissimo biologo scrive in un settimanale: “L’esistenza di un Creatore viene
falsificata dal fatto che le variazioni prodotte dalla selezione naturale possono venir prodotte a
volontà da un allevatore (forse lo ha detto con più forza, ma ho smarrito il riferimento). Ci si sente
tentati di affermare che l’argomentazione è piuttosto a favore dell’esistenza di un Creatore. Ma in
effetti non dimostra nessuna delle due tesi; tutto quello che dimostra è che delle cause materiali
come la ricombinazione di cromosomi dovuta agli incroci ecc. sono sufficienti per spiegare tutte le
variazioni osservabili, proprio come le diverse combinazioni della stessa dozzina di note sono
materialmente sufficienti per spiegare tanto il Chiaro di Luna di Beethoven quanto il suono che fa
un gatto che cammina sui tasti. Ma la performance del gatto né prova l’esistenza di Beethoven, né
ne prova la non-esistenza. Tutto quello che l’argomentazione prova è che il nostro biologo è
incapace di distinguere tra una causa materiale e una finale.
Ecco una frase tratta da una fonte accademica prestigiosissima, il Times Literary
Supplement: “Il francese Alfred Épinas ha fatto notare che certe specie di formiche e di vespe
possono affrontare gli orrori di vita e morte solo in associazione”. Non so quello che di fatto abbia
detto il francese. Quello che dice l’inglese è palesemente senza senso. Non possiamo sapere se la
vita presenta orrori alla formica, o in che senso la vespa solitaria che uccidete schiacciandola
contro il vetro della finestra è in grado di “affrontare” o di non “affrontare” gli orrori della morte.
L’articolo tratta del comportamento umano di massa, e motivi umani sono stati travasati di
straforo dalla proposizione principale alla sua prova. Così il ragionamento, in effetti, dà per
scontato quello che era suo dovere provare. La cosa diverrebbe trasparente se la si stendesse sotto
forma di sillogismo. Questo esempio è uno, scelto a casaccio, dei tanti di un vizio che pervade libri
interi, libri scritti da uomini di scienza che invadono il campo della metafisica.
Un’altra citazione presa dallo stesso numero del TLS cade a pennello per completare
questa collezione di pensieri inquietanti, questa volta presa da una recensione di Some Tasks for
Education di Sir Richard Livingstone: “Diverse volte il lettore viene avvertito circa il valore dello
studio di una materia a fondo, così che possa imparare che cosa vuol dire conoscere, e del fatto
che la precisione e la perseveranza sono necessarie per arrivare alla conoscenza. Altrove, però, ci
si imbatte nel dato preoccupante che si può ben avere completa padronanza di una certa materia,
ma senza saperne di più di quello che il vicino ne sa di un’altra; uno ricorda quello che ha
imparato, ma dimentica completamente come ha fatto ad arrivarci”.
Mi si permetta di richiamare la vostra attenzione sull’ultima frase, che infatti spiega quello
che l’autore con ragione chiama “fatto preoccupante”: le capacità intellettuali trasmesse nel corso
dell’acquisizione di una certa materia non sono trasferibili ad un’altra: “ricorda quello che ha
imparato, ma dimentica completamente come ha fatto ad arrivarci”.
Qual è il gran difetto dell’educazione moderna rintracciabile in tutti i sintomi elencati in
precedenza? Spesso riusciamo a insegnare “materie” ai nostri alunni; ma manchiamo
completamente nell’insegnar loro a pensare. Apprendono tutto, eccetto l’arte di apprendere. È
come se insegnassimo a un ragazzino, meccanicamente e ad orecchio, come suonare Fra Martino
campanaro al pianoforte, ma senza insegnargli le scale o come leggere la musica. E così, dopo aver
appreso a memoria Fra Martino, non avrebbe la più pallida idea di come suonare Il Piccolo

Montanaro. Ma perché dico: “Come se”? In certe materie artistiche facciamo proprio così:
richiediamo all’alunno di ‘esprimersi’ dipingendo prima di insegnargli ad usare i colori o il
pennello. Esiste una scuola di pensiero che favorisce questa procedura. Ma osservate: questa non
è la maniera in cui un artista sperimentato impara un nuovo mezzo espressivo. Sapendo per
esperienza come meglio economizzare sul lavoro e apprestarsi all’impresa come si deve, comincerà
con degli scarabocchi su un pezzo di materiale di scarto, così da ‘sentire’ il comportamento delle
‘ferramenta’.
L’EDUCAZIONE MEDIEVALE
Diamo un’occhiata adesso allo schema educativo medievale, il programma delle scholae.
Che fosse stato pensato per adulti o per giovanissimi non è importante. Quello che importa è la
luce che getta su ciò che i medievali pensavano che fosse l’oggetto e l’ordine del processo
educativo.
Il programma era diviso in due parti: il Trivio e il Quadrivio. La seconda parte, il Quadrivio,
era quello centrato sulle ‘materie’, che per il momento tralasciamo. Quel che ci interessa è come
veniva articolato il Trivio, che precedeva il Quadrivio ed era propedeutico allo stesso. Consisteva di
tre parti: la Grammatica, la Logica o Dialettica, e la Retorica, in quell’ordine.
Cominciamo col notare che due di queste ‘materie’ non erano affatto quel che oggi
chiamiamo ‘materie’: erano metodi per affrontare materie. La grammatica è senza dubbio una
‘materia’ nel senso che con essa si apprende una lingua – a quei tempi il latino. Ma la lingua come
tale è un mezzo per esprimere i propri pensieri. Con il Trivio si insegnava allo studente come
usare le ferramenta della conoscenza, prima di applicarle in qualsiasi modo alle ‘materie’. Primo,
si apprendeva una lingua. Ma non per ordinare un pasto in un ristorante all’estero; si apprendeva
la struttura della lingua, e quindi com’era, di che consisteva e come funzionava. Secondo, si
apprendeva come farne uso; come definire i termini e costruire frasi accurate; come metter su una
argomentazione e come scovare pecche in un’altra. La dialettica era fatta di Logica e dell’arte di
disputare. E terzo, si apprendeva come esprimersi, elegantemente e persuasivamente.
Alla fine di un tale corso di studi, si chiedeva allo studente di preparare una tesi, scelta o
dai maestri o da lui stesso, e di difenderla dalle critiche della facoltà. A questo punto uno aveva
appreso – e guai a lui se non l’avesse fatto – non solo a scrivere un saggio, ma a perorarlo, ad alta
voce e intelligibilmente, da un podio, controbattendo con arguzia ai disturbatori. Poi doveva
rispondere a domande, chiare e brucianti, da parte di chi aveva affrontato a suo tempo la difesa di
una tesi, e se l’era cavata.
È vero che pezzi sfusi della tradizione medievale si trovano ancora, sparpagliati qua e là,
nei programmi scolastici odierni. Bisogna saper qualcosa di grammatica per imparare una lingua
straniera – forse dovrei aggiungere “sapere di nuovo”, perché già ai miei tempi si entrava nella fase
in cui l’insegnamento delle declinazioni e delle coniugazioni cominciava a venir giudicato
biasimevole, assicurando che era meglio se tali conoscenze venivano raccolte lungo la strada. Vi
sono associazioni scolastiche che ne dibattono; si scrivono saggi; viene sottolineata la necessità di
‘autoespressione’, forse anche troppo. Ma tali attività vengono coltivate più o meno isolatamente,
come se appartenessero alle varie materie di insegnamento invece di formare uno schema
coerente di addestramento mentale sotto il quale inquadrare tutte codeste ‘materie’. La
‘Grammatica’ appartiene alla ‘materia’ lingue straniere; la Saggistica a quella detta ‘lingua inglese’;
mentre la Dialettica è stata eliminata del tutto dal programma, e si pratica, quando lo si fa, senza
sistema e fuori dell’orario scolastico, come esercizio separato o debolmente connesso con il dovere
principale di acquisire conoscenze. In complesso, la grande differenza di enfasi tra le due
concezioni è valida: l’educazione moderna si concentra sull’‘insegnare materie’, tralasciando i
metodi per pensare, dibattere ed esprimere le proprie conclusioni, che l’alunno si arrangia a
mettere insieme come può progredendo. L’educazione medievale si concentrava prima di tutto sul
forgiare le ferramenta della conoscenza e sull’addestrarsi con queste, facendo uso di qualsivoglia
materia come canovaccio per allenarsi nel loro impiego. E ciò fino a quando il loro uso diveniva
istintivo.
È evidente che ‘materie’ debbano esservi. Non si può apprendere teoria grammaticale
senza apprendere la lingua corrispondente, o apprendere a dibattere e parlare in pubblico senza
dire qualcosa in particolare. Il materiale da dibattere, nel Medio Evo, proveniva per lo più dalla

teologia, dall’etica o dalla storia antica. È vero che spesso i dibattiti divennero stereotipati,
specialmente verso la fine del periodo preso in esame. Certe assurdità stirate e inverosimili che si
trovano nei dibattiti scolastici facevano perdere la pazienza a Milton, e producono materiale
divertente ancora oggi. Ma non vorrei pronunziarmi sul fatto se codesti argomenti fossero più o
meno triti e ritriti di certi saggi odierni: un tema come “un giorno delle mie vacanze” può destare
una certa noia. Ma l’ilarità con cui si trattano queste cose è fuori luogo, dato che lo scopo e i
contenuti di quello che era un dibattito si sono perduti.
Un disinvolto oratore appartenente a un noto think tank una volta intratteneva il pubblico
asserendo che nel Medio Evo era una questione di fede il sapere quanti arcangeli potessero
danzare sulla punta di un ago. Non devo spiegare, spero, che non era affatto una questione di
fede. Al più si trattava di un dibattito nel quale il materiale su cui esercitarsi era la natura della
sostanza angelica: erano materiali gli angeli, e se lo erano, occupavano spazio? La risposta giusta
era, penso io, che gli angeli sono intelligenze pure; non materiali, ma limitate, così da poter essere
localizzate, ma non estese, nello spazio. La lezione pratica scopo del dibattito era di non far uso di
termini come ‘là’ in maniera non ben definita e non scientifica, senza cioè specificare cosa volesse
dire, ‘localizzato là’ o ‘che occupa spazio là’.
La pignoleria medievale è stata fatta oggetto di scherno a non finire; ma quando
osserviamo l’abuso svergognato che si fa, nella stampa e nei comizi, di espressioni controverse di
significato ambiguo o ondeggiante, è possibile che sentiamo dentro un certo desiderio che magari
a chi scrive o parla fosse stata fornita durante la sua educazione quella corazza, che gli
permetterebbe di esclamare: “Distinguo”. [1]
Già, perché noi facciamo sì che i nostri giovani vadano in giro disarmati, proprio quando
essere ben armato non è mai stata una necessità più impellente. Abbiamo insegnato loro a
leggere, lasciandoli però alla mercé della parola stampata. L’invenzione del cinema e della radio ha
fatto sì che anche chi non ama leggere venga costantemente bombardato da parole, parole, parole.
Non ne conoscono il significato; non sanno come pararne i colpi, smussarne il taglio o rilanciarle
al mittente; sono divenuti preda delle parole nelle loro emozioni invece di esserne i padroni nel
loro intelletto. Quelli di noi che si scandalizzavano nel 1940 quando i nostri soldati venivano
mandati a combattere col fucile contro i carri armati, non si scandalizzano affatto quando giovani
uomini e donne vengono mandati nel mondo a combattere una propaganda massiccia con una
infarinatura di ‘materie’; e quando classi e nazioni intere vengono ipnotizzati dalle arti magiche,
abbiamo l’impudenza di stupirci. Appoggiamo a parole – a parole – e con parsimonia, l’importanza
dell’educazione; a volte anche con qualche spicciolo; posponiamo la fine dell’età scolare, e
progettiamo scuole più grandi e migliori; gli insegnanti sgobbano coscienziosamente durante e
fuori l’orario; eppure, penso io, tutti i loro sforzi sono condannati alla frustrazione. Abbiamo
perduto le ferramenta dello scibile, e non possiamo che fare pasticci e cucire rattoppi.
E ORA?
Cosa fare quindi? Non possiamo tornare indietro al Medio Evo. Siamo abituati a sentire
questo lamento. Non possiamo andare indietro – o possiamo? Distinguo. Che mi si definisca ogni
termine della proposizione. “Andare indietro”, vuol dire regredire nel tempo, o correggere un
errore? Il primo è chiaramente impossibile di per sé; il secondo è quel che ogni saggio fa
giornalmente. “Non possiamo”, vuol dire che la nostra condotta è determinata irreversibilmente, o
che una tale azione sarebbe molto difficile a causa dell’opposizione che provocherebbe? È ovvio
che il XX secolo non è il XIV, ma se “Medio Evo” non è, in questo contesto, poco più di una frase
pittoresca che denota una teoria educativa particolare, non esistono ragioni a priori per “non
tornarvi” – con le dovute modifiche – così come siamo tornati, diciamo, con le dovute modifiche,
all’idea di rappresentare le opere di Shakespeare così come le scrisse, e non nella versione
‘moderna’ di Cibber e Garrick, che una volta sembrava il non plus ultra del progresso scientifico.
Divertiamoci per un momento immaginando che una tale retrocessione sia possibile.
Spazziamo via tutte le autorità scolastiche, e procuriamoci una piacevole, piccola scuola mista
con ragazzi e ragazze che vogliamo equipaggiare per affrontare il conflitto intellettuale lungo linee
guida scelte da noi stessi. Daremo loro genitori eccezionalmente docili; forniremo la scuola di
personale insegnante perfettamente a conoscenza degli scopi e metodi del Trivio; costruiremo un
edificio abbastanza grande con il personale giusto per classi sufficientemente ridotte e gestibili; e

postuleremo una commissione di esami volenterosa e qualificata per collaudare quel che
produrremo. Così preparati, abbozzeremo un programma – un “Trivio moderno con dovute
modifiche” e vediamo dove ci condurrà.
Cominciamo considerando l’età degli alunni. Dovendoli educare da zero, sarebbe meglio
che non avessero alcunché da dimenticare; per di più, non è mai troppo presto per cominciare
qualcosa di buono, e il Trivio è per natura non un apprendimento, ma una preparazione ad esso.
Li prenderemo, quindi, giovanissimi, semplicemente capaci di leggere, scrivere e far di conto.
Sono conscia del fatto che le mie vedute sulla psicologia infantile non sono né ortodosse né
illuminate. Guardando indietro a me stessa (sono la bambina che conosco meglio e la sola dal di
dentro) riconosco tre momenti di sviluppo. Grosso modo, li chiamerò l’età Pappagallo, l’età
Sfacciata e quella Poetica, quest’ultima coincidente con l’inizio della pubertà. Nell’età Pappagallo
apprendere a memoria è facile e generalmente piacevole, mentre ragionare è difficile e
generalmente poco apprezzato. A questa età si mandano a memoria le forme e apparenze delle
cose; ci si diverte a recitare le targhe delle auto; si gioisce a scandire ad alta voce rime e a rombare
e tuonare polisillabi incomprensibili; e si ama far raccolta di qualsiasi cosa. L’età Sfacciata, che
segue e si accavalla con la prima, è caratterizzata dall’attitudine del bastian contrario:
contraddire, rimbeccare, prendere in fallo (specialmente i grandi), e proporre indovinelli. Ha un
altissimo coefficiente di insopportabilità. Normalmente si affaccia nella scuola media. L’età Poetica
la si conosce come ‘età difficile’. È egoista; ci si tiene all’‘autoespressione’; ci si specializza
nell’essere incompresi; è inquieta e tenta di conquistare l’indipendenza. Con una buona dose di
fortuna e una buona guida dovrebbe far emergere l’inizio della creatività, del desiderio di una
sintesi del già conosciuto, e una certa impazienza nel sapere e fare una cosa preferita rispetto alle
altre. È mia impressione che il Trivio si adatti singolarmente a queste tre età: la Grammatica alla
Pappagallo, la Dialettica alla Sfacciata e la Retorica alla Poetica.
GRAMMATICA
Cominciamo quindi con la Grammatica, che in pratica vuol dire la grammatica di una data
lingua. E deve essere la grammatica di una lingua dotata di flessioni, sintetica quindi. La
struttura di una grammatica senza flessioni, e pertanto analitica, non può essere affrontata da chi
non ha nozioni pratiche di Dialettica. Per di più, la lingua sintetica interpreta quella analitica,
mentre quella analitica serve poco o nulla per interpretare la sintetica. Comincio quindi con
l’affermare che la lingua latina è la base migliore per l’educazione. E non perché il latino sia
tradizionale e medievale, ma semplicemente perché una conoscenza anche rudimentale del latino
riduce il tempo necessario per imparare quasi ogni altra materia per lo meno del 50%. Il latino
rappresenta la struttura di tutte le lingue germaniche e la chiave di accesso al loro vocabolario,
così come anche al vocabolario tecnico di tutte le scienze e della letteratura dell’intera civiltà
mediterranea, per non parlare dei suoi documenti.
Coloro che si lasciano convincere dalla preferenza dei pedanti per le lingue vive a privare i
loro alunni di tutti questi vantaggi, possono sostituirvi il russo, con la sua grammatica primitiva.
Il russo aiuta, naturalmente, nell’apprendimento delle lingue slave. Ci si potrebbe pronunziare
anche a favore del greco classico, ma la mia scelta è il latino. Avendo così accontentato i classicisti
presenti fra voi, lasciate che vi sconvolga aggiungendo che non credo né saggio né necessario
costringere lo studente medio a sdraiarsi sul letto di Procuste dell’età di Augusto con i suoi versi
elaborati ed artificiali e le sue forme oratorie. Il latino post-classico e medievale fu un latino vivo
fino alla fine del Rinascimento. È facile, e in varie guise più vivace; il suo studio aiuta a dissipare
la nozione secondo la quale la lingua e la letteratura si fermarono di colpo alla nascita di Cristo e
si risvegliarono solo al tempo della spoliazione dei monasteri.[2]
Il latino va cominciato quanto prima, quando una lingua ricca di flessioni non sbalordisce
più di qualunque altro fenomeno in un mondo già di per sé sbalorditivo; e quando lo scandire ad
alta voce “amo, amas, amat” è un rito, né più né meno che “se l’arcivescovo di Costantinopoli…”.
A questa età, naturalmente, bisogna esercitare la mente con qualcosa di più della
grammatica latina. L’osservazione e la memoria sono le due facoltà più vivaci in quel periodo, e se
bisogna apprendere una lingua straniera moderna facciamolo ora, prima che i muscoli facciali e
mentali si ribellino a intonazioni strane. Il francese o il tedesco parlati possono benissimo venir
praticati insieme alla disciplina grammaticale del latino.

In inglese, nel frattempo, poesia e prosa possono venire apprese a memoria, un magazzino
da riempire con storie di ogni tipo: mitologia classica, leggende europee, eccetera. Non sono
dell’opinione che le storie classiche e i capolavori della letteratura antica debbano essere utilizzati
a mo’ di corpus vile su cui praticare le tecniche grammaticali. L’educazione medievale commetteva
questo errore, ed è meglio non ripeterlo. Le storie sono divertenti e vanno ricordate in inglese,
evidenziandone l’origine più tardi. La recita ad alta voce va incoraggiata, individualmente o in
coro; non dimentichiamo che stiamo posando le fondamenta del dibattito e della retorica.
La grammatica della storia dovrebbe consistere, penso io, di date, eventi, aneddoti e
personalità. Un insieme di date alle quali agganciare più tardi qualsiasi conoscenza di tipo storico
aiuta enormemente a fissarne la prospettiva. Non importa quali date: quelle dei re d’Inghilterra
vanno benissimo, sempre che vengano accompagnate da immagini di costumi, architettura e
oggetti di uso comune, cosicché la menzione di una data richiami tutta una visione del periodo.
La geografia verrà presentata in maniera equivalente, con carte e configurazioni
geografiche, più una presentazione grafica di abitudini, costumi, flora, fauna, eccetera. Sono
dell’opinione che recitare a memoria capitali, fiumi, montagne e così via, oggi tanto in disistima,
non faccia alcun male. Si incoraggino pure le collezioni di francobolli.
Le scienze, durante l’età Pappagallo, si organizzano da sé attorno a collezioni, con le
dovute identificazioni, attività che una volta si chiamava ‘filosofia naturale’. Sapere il nome e le
proprietà delle cose, a questa età, è una gran soddisfazione in sé e per sé. Riconoscere un
calabrone in volo e distinguerlo da un coleottero, allo stesso tempo assicurando i grandi – forse
ignoranti – che il primo ha il pungiglione e il secondo no; riconoscere Cassiopea e le Pleiadi, e
forse anche sapere chi erano costoro; sapere che la balena non è un pesce, e il pipistrello non è
un uccello; tutte queste cose danno una sensazione piacevole di superiorità, mentre il saper
distinguere una biscia da una vipera o un fungo mangereccio da uno velenoso sono conoscenze di
indubbia utilità.
La grammatica delle matematiche comincia, naturalmente, con la tavola pitagorica, che se
non si impara adesso non si imparerà più con piacere; e con il riconoscere le forme geometriche e
i gruppi di numeri. Codesti esercizi conducono in maniera naturale verso l’eseguire semplici
addizioni in aritmetica. Esercizi più complessi possono essere, anzi vanno, rimandati a più tardi,
per ragioni che verranno a galla fra poco.
Fin qui, il nostro programma non differisce molto da quelli correnti, eccetto naturalmente
che per il latino. La differenza è spiccata, però, nell’atteggiamento dei maestri, che devono
guardare a tutte codeste attività meno come a ‘materie d’insegnamento’ che come a una raccolta
di materiale da usare nel prossimo stadio del Trivio. La natura di codesto materiale non importa;
qualsiasi cosa possa mandarsi a memoria durante questo periodo dovrebbe andar bene, sia che
venga capita immediatamente o no. La tendenza moderna è di forzare troppo presto spiegazioni
razionali nella mente di un bambino. A una domanda intelligente, posta spontaneamente, si
risponda immediatamente e razionalmente; ma è un grave errore supporre che un bambino sia
incapace di divertirsi e di ricordare materiale che va oltre la sua capacità di analisi, specialmente
cose che fanno appello all’immaginazione, come Kublai Khan, o un motivo musicale per
l’apprendimento dei generi latini, o un’abbondanza di polisillabi echeggianti come quelli del
Quicumque vult.
Mi viene in mente la grammatica della Teologia. La aggiungo perché la teologia è la regina
di tutte le scienze, senza la quale tutta la struttura educativa non perverrà a una sintesi finale.
Chi non è d’accordo con questa proposizione si accontenterà di lasciare l’educazione dei suoi
studenti piena di nozioni disgiunte. La cosa non è poi tanto importante, perché una volta forgiate
le ferramenta della conoscenza, lo studente sarà in grado di affrontare la teologia da solo, e
probabilmente insisterà nel farlo. Ma è bene avere questo materiale pronto per un uso corretto.
All’età grammaticale basta un profilo di storia sacra, cioè una passata a volo d’uccello sul Vecchio
e Nuovo Testamento e sul quadro della Creazione, Ribellione e Redenzione, nonché il Credo, il
Padre nostro, e i dieci Comandamenti.[3] A questa età non importa tanto che queste cose vengano
capite. Importa che vengano ritenute a memoria.

DIALETTICA
È difficile stabilire a che età si debba passare da uno stadio all’altro. Generalmente, l’età
giusta è quella in cui si sveglia la sfacciataggine, e con essa il desiderio di fare i bastian contrari.
Al primo stadio le facoltà maestre erano osservazione e memoria. Adesso è il discorso ragionato.
Nel primo, la grammatica latina faceva da perno attorno a cui rotavano tutte le altre nozioni. Nel
secondo, quella funzione la espleterà la Logica Formale. Qui il nostro programma mostra la prima
divergenza seria dai programmi moderni. Il discredito in cui è caduta la Logica Formale è
completamente ingiustificato; averla trascurata è l’errore alla base di tutti i sintomi inquietanti
notati poco fa nella costituzione intellettuale moderna. La Logica è stata screditata perché in parte
siamo arrivati a supporre che ciò che ci condiziona è l’intuizione e il subconscio. Non c’è tempo
per dibattere se ciò sia vero o no; dirò semplicemente che il trascurare l’addestramento della
ragione è la maniera migliore di provare la verità di codesta proposizione. Un’altra causa dietro
alla disgrazia in cui è caduta la Logica Formale è la credenza che poggi su basi universali che
sono o impossibili da provare o tautologiche. Non è vero. Non tutte le proposizioni universali sono
di questo tipo. Ma anche se lo fossero, non farebbe alcuna differenza, perché ogni sillogismo
categorico di forma “Ogni A è B” lo si può rimaneggiare in forma ipotetica, “Se A, allora B”. Il
metodo non viene invalidato dalla natura ipotetica di A. E rimarchiamo che l’utilità pratica della
Logica non è tanto stabilire conclusioni positive quanto identificare rapidamente ed esporre come
false conclusioni invalide.
Diamo adesso un’occhiata riassuntiva al nostro materiale e vediamo come riferirlo alla
Dialettica. Per quello che riguarda la lingua, avremo il vocabolario e la morfologia sulla punta
delle dita; potremo quindi concentrarci sulla sintassi e sull’analisi logica, più la storia della lingua
(cioè come siamo arrivati a mettere insieme il linguaggio che convoglia i nostri pensieri).
Le letture procederanno dalla narrazione e dalla lirica al saggio, all’argomentazione e alla
critica, con le quali lo studente farà tirocinio. Parecchie lezioni, in tutte le materie, prenderanno
forma di dibattito. E invece di rappresentazioni individuali o corali vi sarà quella teatrale,
prestando speciale attenzione a lavori teatrali che intendono convogliare ragionamenti.
La matematica, algebra o geometria che sia, e l’aritmetica più avanzata faranno parte del
programma, prendendovi posto non come ‘materie’ indipendenti, ma come sottosezione della
Logica. Si tratta né più né meno che di applicare le regole del sillogismo ai numeri e alla misura, e
dovrebbero essere insegnate così, non come un cupo mistero per alcuni e una brillante rivelazione
per altri, senza che illuminino altre conoscenze o vengano illuminate da esse.
La storia, con l’aiuto di una semplice etica tratta dalla grammatica della teologia, offrirà
moltissimo materiale di discussione: È giustificata l’azione di quello statista? Che effetto ha avuto
la promulgazione di quella legge? Quali sono gli argomenti pro o contro una certa forma di
governo? Ecco così un’introduzione alla storia costituzionale, una materia senza significato per un
piccoletto, ma appassionante per chi è preparato a discutere e a dibattere. La teologia stessa
fornirà materiale per argomenti circa la condotta e la morale; e sarebbe bene che la si espandesse
con un po’ di teologia dogmatica, cioè la struttura razionale del pensiero cristiano, mettendo in
chiaro le relazioni tra dogma ed etica, e applicandola a esempi particolari in quel ramo che
comunemente si conosce come sofistica. Anche la geografia e le scienze possono fornire materiale
alla dialettica.
Ma soprattutto non trascuriamo il materiale abbondante offerto dalla vita di tutti i giorni.
Nel libro La siepe vivente di Leslie Paul c’è un passaggio gradevolissimo, in cui una banda
di ragazzi si mette a discutere circa un acquazzone straordinario abbattutosi sulla loro cittadina.
Era stato così localizzato che metà della strada principale era rimasta bagnata e l’altra asciutta.
Discutevano se si potesse parlare di pioggia sulla città o solo nella città, o sopra la città. Quante
gocce d’acqua costituiscono la pioggia? E così via. Il dibattito poi si spostava su altre direttrici,
circa la quiete e il movimento, il sonno e la veglia, essere o non essere, e la divisione infinitesimale
del tempo. L’intero passaggio è un esempio ammirevole dello sviluppo spontaneo della facoltà
raziocinante e della propensione naturale e della sete intellettuale della ragione che si sveglia,
nonché della necessità di definire i termini e di quella dell’esattezza delle proposizioni. Eventi di
tutti i tipi sono in grado di soddisfare un tale appetito intellettuale.
I bambini sono sofisti nati. La decisione di un arbitro; fino a che punto è permesso
trasgredire lo spirito di una legge senza venirne intrappolati dalla lettera; su questioni del genere

la loro intelligenza va addestrata e condotta a porsi in relazione intelligibile con gli eventi del
mondo reale. I giornali sono pieni di materiale eccellente per esercizi di questo tipo: le sentenze dei
tribunali in casi relativamente semplici; i ragionamenti fallaci e le argomentazioni confuse che si
trovano a palate nella sezione Lettere all’Editore di molti giornali.
Dovunque si trovi materiale da passare al crivello della dialettica, è ovviamente importante
far risaltare l’eleganza e l’economia di una dimostrazione ben concepita e redatta, così da evitare il
cinismo. La critica non deve essere solo negativa; ma tanto gli alunni quanto il maestro devono
sentirsi in dovere di schiacciare come altrettanti scarafaggi sofismi, ragionamenti imprecisi,
ambiguità, irrilevanze, e ridondanze. Questo è il momento in cui intraprendere l’arte di scrivere
riassunti e anche saggi, che dopo la prima stesura possono benissimo venir sfoltiti del 25% o
anche 50%.
Qualcuno potrebbe ora obiettare che incoraggiare ragazzi dell’età Sfacciata ad intimidire,
correggere e discutere con gli anziani li renderà del tutto intollerabili. Rispondo che a quell’età i
ragazzi sono intollerabili comunque, e che è meglio canalizzare la loro tendenza a discutere verso
un fine buono invece di lasciarla insabbiare. Se disciplinata a scuola, quella tendenza può essere
meno invadente a casa; e in ogni caso gli anziani che hanno abbandonato il sano principio che ai
bambini bisogna prestare attenzione ma non dare retta non hanno che da biasimare sé stessi.
Ripeto che il contenuto del programma a questo punto può essere qualsivoglia. Le ‘materie’
forniscono il materiale; tutte fanno brodo per il piatto mentale da cucinare. Gli alunni vanno
incoraggiati ad andarsi a cercare le informazioni, e a fare un uso appropriato di biblioteche e
opere di riferimento, mostrando loro quali fonti di informazione siano autorevoli e quali no.
RETORICA
Verso la fine della tappa, gli alunni avranno probabilmente cominciato a rendersi conto del
fatto che le conoscenze acquisite e l’esperienza di vita raccolta sono insufficienti, e che la loro
intelligenza, addestrata, ha adesso bisogno di molto più materiale da masticare. L’immaginazione,
in letargo durante l’età Sfacciata, si risveglia, stimolandoli a sospettare che la logica e il
ragionamento hanno i loro limiti. Ciò indica che stanno passando all’età Poetica, e che sono pronti
ad intraprendere lo studio della Retorica. Le porte del deposito dello scibile vanno adesso
spalancate, perché i ragazzi diano un’occhiata in giro a volontà. Cose a suo tempo imparate a
memoria riappaiono in contesti nuovi; altre, a suo tempo analizzate, tornano a unirsi in nuove
sintesi; qua e là appaiono intuizioni nuove, che causano la più eccitante delle scoperte: che le
ovvietà corrispondono a verità.
È difficile preparare accuratamente un programma per lo studio della retorica: c’è bisogno
di una certa libertà. In letteratura, la valutazione dovrebbe venir prima della critica negativa;
l’autoespressione scritta può progredire, con gli strumenti ora affilati e capaci di far tagli netti e
osservare le dovute proporzioni. Chi mostra tendenza a specializzarsi deve essere incoraggiato a
farlo, dacché chi ha padroneggiato l’uso delle ferramenta può ora dirigere l’attenzione dovunque.
Penso che ogni studente dovrebbe essere incoraggiato a penetrare in una o due materie veramente
a fondo, allo stesso tempo frequentando lezioni di materie minori così da mantenere la mente
aperta verso le relazioni di tutto lo scibile. Infatti, a questo punto la difficoltà sarà quella di
mantenere le ‘materie’ separate, giacché la dialettica ha mostrato che vi sono relazioni tra tutti i
rami dello scibile. La retorica tenderà a mostrarne l’unità. La teologia, da regina che è, mostra che
è proprio così, e perché. Ma che si studi o no teologia, dovremmo per lo meno insistere che coloro
che mostrano inclinazione verso le discipline scientifiche siano obbligati a frequentare lezioni di
materie umanistiche, e viceversa. A questo punto anche la grammatica latina può venir
tralasciata, avendo fatto il suo lavoro, a vantaggio di coloro che vogliono continuare lo studio di
lingue moderne. Mentre a coloro che hanno mostrato di non avere grandi attitudini per le
matematiche, si può permettere di riposare più o meno sugli allori. Generalmente parlando, tutto
ciò che è servito da puro apparato lo si può tralasciare. La mente addestrata ora viene preparata a
specializzarsi in quelle ‘materie’ che è perfettamente in grado di affrontare da sé una volta
completato il Trivio. Bisognerebbe ripristinare la sintesi finale del Trivio, cioè la difesa di una tesi,
la quale potrebbe prendere il posto dell’esame di maturità durante l’ultimo trimestre scolastico.[4]
La portata della retorica dipenderà anche dal fatto che il giovane intenda affrontare il
mondo a 16 anni o continuare verso l’università. Dato che la retorica dovrebbe essere studiata a

partire dai quattordici anni, la prima categoria di alunni dovrebbe studiare grammatica dai nove
agli undici, e dialettica dai dodici ai quattordici anni. La retorica servirà nei due anni successivi,
diretta verso quelle materie pratiche che serviranno loro per guadagnarsi da vivere non appena
lasciata la scuola. Quelli della seconda categoria dovrebbero esser pronti a dare una prima
occhiata alle ‘materie’ che costituiranno il programma universitario. Questa parte dell’educazione
corrisponderebbe a quello che era il Quadrivio nell’Età Media. Ciò equivale a dire che chi lascia la
scuola a sedici anni si ferma al Trivio, mentre chi prosegue sperimenta tanto il Trivio quanto il
Quadrivio.
IN DIFESA DEL TRIVIO
Il Trivio è sufficiente come educazione per la vita? Se l’insegnamento è impartito come
dovrebbe, penso proprio di sì. Forse alla fine del corso di dialettica lo studente potrà sembrare
indietro rispetto a un coetaneo allevato con la dieta ‘moderna’ a base di ‘materie’. Di particolari ne
saprà di meno. Ma dopo i quattordici anni costoro dovrebbe essere in condizioni di sorpassare gli
altri rapidamente. Di fatto, non sono affatto sicura che uno studente con competenze compiute
nelle discipline del Trivio non dovrebbe poter andare all’Università a sedici anni, come il suo
omologo medievale, la cui precocità ci lasciava a bocca aperta al principio di questa discussione.
Ciò, naturalmente, manderebbe a gambe all’aria il sistema inglese delle public-school, e
sconcerterebbe per bene le università. La regata Oxford-Cambridge non sarebbe più riconoscibile,
per esempio.
Non è mia intenzione, però, considerare le reazioni delle istituzioni accademiche: quello
che mi interessa è l’addestramento delle menti per prepararle ad affrontare la massa formidabile
di problemi mal digeriti che il mondo moderno presenta tutti i giorni. Perché le ferramenta dello
scibile sono le stesse per ogni possibile parte di esso; chi le conosce e sa come usarle, potrà
impadronirsi, a qualunque età, di qualsiasi materia che gli venga in mente, in metà del tempo e
con un quarto dello sforzo di chi o non le conosce o non sa come usarle. Imparare sei materie
senza ricordarsi come si sono imparate non aiuta affatto ad impararne una settima; imparare e
ricordare invece l’arte di apprendere apre le porte di qualsiasi altra materia.
Prima di concludere questa serie di suggerimenti, necessariamente sommari, mi si lasci
dire perché penso che sia tanto necessario, oggi, tornare a discipline abbandonate. La verità è che
per 300 anni e rotti abbiamo vissuto contando su un ‘capitale’ educativo. Il mondo del dopo
Rinascimento, sconcertato ed eccitato dalla profusione di nuove ‘materie’ che venivano offerte, si
allontanò dalla disciplina di una volta (che, bisogna ammettere, era diventata noiosa e
stereotipata nelle sue applicazioni pratiche) e prese ad immaginare che da allora in poi potesse,
per così dire, divertirsi con il suo nuovo e più esteso Quadrivio senza passare per il Trivio. Ma la
tradizione scolastica, per quanto a pezzi e storpiata, perdurava nelle scuole e nelle università.
Milton stesso, che la contestava, vi era stato formato – le tracce delle ferramenta si possono
rinvenire nel suo dibattito degli Angeli Caduti e nel dialogo di Abdiel con Satana, che sia detto per
inciso potrebbero fornire materiale eccellente per i nostri studi dialettici. Fino al XIX secolo i
nostri affari pubblici venivano condotti, e i nostri libri e giornali scritti, da gente educata in case, e
addestrata in luoghi, dove quella tradizione era ancora viva e per così dire circolante nel sangue
delle persone. Proprio come molti che si dichiarano atei o agnostici in fatto di religione vengono
guidati da un codice di condotta cristiano così radicato che non si danno neanche la briga di
metterlo in dubbio.
Ma non si può vivere di capitale per sempre. Per quanto ferma e radicata sia una
tradizione, se non la si irriga può tardare a morire, ma alla fine muore. E oggi una gran quantità
di persone – la maggioranza forse -, di uomini e donne che gestiscono i nostri affari, che scrivono
libri e giornali, che presentano opere teatrali e film, che parlano da leggii e da pulpiti, per non
parlare di coloro che educano i giovani, non hanno mai, nonostante la persistenza di qualche
tradizione, ricevuto addestramento alcuno nella disciplina delle scholae medievali. I giovani che
lasciano la scuola portano con sé sempre meno di quella tradizione. Abbiamo perduto le
ferramenta della conoscenza – l’ascia e il cuneo, il martello e la sega, lo scalpello e la pialla – che
erano così adattabili a tutti i compiti. In loro vece, abbiamo solo un insieme di maschere di
montaggio, complicate, ognuna delle quali esegue non più di un compito, e nel cui uso né la mano
né l’occhio ricevono alcun addestramento, cosicché nessuno vede il lavoro nel suo complesso o
anche il suo fine.

A che serve ammucchiare compito su compito e prolungare la durata del lavoro, se alla
fine non si raggiunge lo scopo prefissato? La colpa non è dei maestri, che lavorano già duro. La
follia di una civiltà che ha dimenticato le sue radici li forza a puntellare il peso traballante di una
struttura educativa costruita sulla sabbia. Fanno per i loro alunni quello che gli alunni
dovrebbero fare da sé. Perché il solo fine dell’educazione è questo: insegnare come apprendere da
sé; e qualsiasi tipo di istruzione che manchi di farlo è sforzo compiuto in vano.

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